7 gennaio 2005

Racconti dal treno - Sette gennaio: nebbia fitta

Eccoci qua, sul solito treno. L’epifania tutte le feste si porta via... e Denise, la graziosa bambina scomparsa di cui nessuno ormai parla più, continua a guardarmi da un cartello appeso alla reticella. Come sempre, il treno è in ritardo. Sto cominciando ad affezionarmi a questo modo di viaggiare: a questa granitica certezza che non so mai quando partirò, ma men che meno so quando arriverò. Una sorpresa continua.
C’è nebbia questa sera: non so dove sono, non si vede nulla se non qualche lampione che galleggia in uno spazio senza dimensioni, ma che mi fa capire benissimo che il treno sta viaggiando a non più di trenta chilometri all’ora. Per forza: davanti c’è un locale, partito con un inspiegabile ritardo di trenta – pardon, ventinove minuti. Ma non è dei ritardi dei treni che voglio parlare: è della nebbia.
Noi della città siamo sfortunati: non ci capita più di trovare quella bella nebbia densa e sporca, quella che a Milano “si tagliava con il coltello”, che cancellava come per magia tram marciapiedi alberi e negozi, sfumando tutto in una tavolozza di tutte le gradazioni del grigio. La tecnologia di oggi ci regala polveri più sottili della buona cara fuliggine di un tempo, attorno a cui il vapor d’acqua non condensa così volentieri.
Mi ricordo, quando ero bambino, che mio padre mi accompagnava a scuola in macchina. Aveva, allora, una giulietta della ditta, di un colore bruttissimo rispetto al bel blu scuro di quella, per il resto simile, del nonno. Questa macchina era dotata della fantastica capacità di non partire mai quando se ne aveva bisogno. Mi rivedo ancora, nel cortile di casa, a guardare giù per la rampa dei box e ad ascoltare il rumore sempre più lento e miagolante del motorino di avviamento mentre la batteria si scaricava. Ogni tanto, dallo scappamento del motore ingolfato, sortiva anche uno scoppio per nulla rassicurante.
Chiunque al mio posto avrebbe pregato tutte le divinità del cielo perché il motore non partisse. Invece io, che sono timido, desideravo il contrario: non per il desiderio di arrivare presto a scuola, ma per il timore che, dovendo andarci a piedi e quindi arrivando con grave ritardo, sarei stato poi costretto a giustificarmi davanti alla direttrice fornendo la più banale e la meno credibile delle scuse.
Invece, com’è come non è, quella dannata macchina all’ultimo ansito del motorino di avviamento riusciva sempre a mettersi in moto. E qui, quando c’era la nebbia, cominciava il bello: per andare da casa a scuola bisognava passare per una piazza rotonda, dove mio padre ed io più di una volta ci siamo persi. Sì, perchè la nebbia era così fitta che si perdeva il senso dell’orientamento, e bastava un attimo di distrazione per perdere anche il conto delle vie di uscita dalla rotatoria. Adesso, nebbia o non nebbia, la cosa non potrebbe più succedere, perché hanno messo i semafori. Ma allora i semafori non c’erano: c’erano, ricordo, due lampade di quelle gialle ai vapori di sodio, ma si vedevano solo all’ultimo momento, quando ormai era troppo tardi. E allora l’unica possibilità era quella di rifare tutto il giro, cercando di stare più attenti e di non perdere di nuovo il conto.
Mi ricordo bene questa strana cerimonia, che alla fine ci portava ad imboccare il viale alberato che andava verso la scuola: con sollievo, perché da lì in poi occorreva andare sempre diritto. Mi ricordo anche che almeno una volta abbiamo perso il conto di nuovo, e di giri della piazza ne abbiamo dovuti fare addirittura due.