2 novembre 2005

Novella di novembre

Ho scritto una novelletta, che per una volta non c'entra proprio nulla con i treni. Spero che vi piaccia!

UN BEN STRANO PAESE


Proprio uno strano paese, T*. Me lo raccontava sempre, mio nonno, di quella volta che era stato a T*, dove, diceva, gli era capitata la più pazzesca avventura della sua vita. E in effetti, qualcosa di vero in quella storia doveva esserci, anche se adesso, a distanza di tanti anni, a ripensarci bene mi sembra un racconto proprio fantastico.

Dunque, diceva mio nonno, la stranezza di T* consisteva proprio nella sua apparente normalità. Tutto era pulito e ordinato, a T*: gli abitanti erano gentili e ospitali, e apparivano laboriosi e abbastanza benestanti. Eppure, il viaggiatore che arrivava a T* non poteva fare a meno di notare come per quella gente fosse importante il rispetto maniacale per gli orari e per tutto quello che, in una maniera o nell’altra, era connesso con la gestione del tempo. Se si chiedeva la ragione di questo, i giovani rispondevano che era così perché era naturale che fosse così, e gli anziani che era così perché si era sempre fatto così, fin da quando erano giovani i nonni dei bisnonni dei loro nonni.

Sta di fatto che, ogni volta che nasceva un bambino, la prima cosa che gli facevano, ancora prima di tagliare il cordone ombelicale, era applicargli l’orologio. Esatto: così come da noi ad ogni neonato si applica una fascetta al polso, per evitare di confonderlo e di consegnarlo poi alla madre sbagliata, così a T* gli si applicava un piccolo orologino con un cinturino di quelli che una volta chiusi non si possono più riaprire. Che se ne facesse un neonato di un orologio non è cosa che noi possiamo comprendere: di certo non lo guardava per sapere l’ora della prossima poppata! Ma questa era l’usanza, e andava rispettata.

Quando poi il bambino cresceva, ogni due anni doveva sottoporsi al cambio dell’orologio: un funzionario governativo, secondo quanto stabiliva la legge, tagliava il vecchio cinturino e ne applicava subito uno nuovo, anch’esso dotato dello stesso meccanismo di chiusura permanente. La cosa andava avanti fino ai diciotto anni, quando, con una cerimonia solenne, veniva consegnato ad ogni cittadino un bellissimo orologio d’oro, a spese dello stato, che doveva durare per tutta la vita. Anche questo, ovviamente, aveva un cinturino a chiusura permanente.

Di togliersi l’orologio, quindi, neanche parlarne. A parte l’impossibilità di farlo senza distruggerlo, la legge parlava chiaro: chi fosse stato sorpreso senza orologio sarebbe stato messo immediatamente a morte senza processo: bastava la constatazione di un pubblico ufficiale, e il poveretto era spacciato. Non solo: lo stesso destino aspettava anche chi fosse stato trovato con l’orologio fermo, o mal regolato.

Negli anni, diversi spiriti eletti avevano tentato di abolire una legge così palesemente ingiusta, di cui, oltretutto, nessuno si ricordava il perché fosse stata promulgata. Purtroppo però la legge stava nella Costituzione di T*, in una sezione speciale denominata “leggi inabrogabili”, e quindi il Parlamento non poteva far nulla per toglierla: si sarebbe dovuto cambiare la Costituzione, ma il primo articolo delle leggi inabrogabili affermava solennemente che “la Costituzione è modificabile secondo la procedura prevista dalla Legge, eccezion fatta per gli articoli della presente sezione”. Quindi, niente da fare. Quella era la legge, e la legge andava osservata.

Se l’obbligo per tutti gli abitanti di portare l’orologio era quindi inderogabile, il modo di adempierlo aveva subito, nel tempo, alcune varianti. Qualche anno prima era stata salutata come una panacea l’introduzione degli orologi elettronici, regolati via radio, che non avevano più bisogno di manutenzioni frequenti. L’operazione aveva richiesto qualche anno, perché a T* non potevano permettersi la spesa per sostituire anche gli orologi meccanici già applicati, ma pian piano, nel giro di qualche anno, quando tutti i vecchi erano ormai morti, il problema poteva considerarsi risolto. Il Governo aveva fatto installare, proprio nel centro della capitale, un altissimo traliccio che diffondeva segnali orari a tutto il paese. Di conseguenza, era stato abolito l’obbligo dei controlli mensili dell’orologio, una vera scocciatura a cui tutti gli abitanti di T* erano stati sottoposti fino ad allora. Non solo, ma la maggiore precisione degli orologi elettronici aveva reso inutile il colpo di cannone orario. Proprio così: come in molte città, a mezzogiorno, si spara, o si sparava, un colpo di cannone, a T* se ne sparava uno ogni ora, giorno e notte, ogni giorno dell’anno. Vi lascio immaginare come fossero riposanti, prima, le notti a T*…

Finalmente tutto filava liscio a T*, e gli abitanti attendevano alle loro occupazioni con un ritmo ben scandito dai cadenzati segnali elettronici della torre al centro del paese, finché un giorno scoppiò lo scandalo destinato a passare alla storia di T* come il caso dello smemorato del parco.

Ecco di che si trattava: la guardia municipale Affelk, durante il suo giro di ronda nel parco pubblico, aveva trovato, e arrestato per vagabondaggio, un vecchietto che dormiva nascosto dietro un cespuglio. A dir la verità, ad una prima occhiata gli era sembrato un cadavere, ma dopo averlo scosso ben bene il vecchietto si era ripreso e, con una lingua chiaramente impastata da abbondanti libagioni, aveva farfugliato qualcosa circa una bottiglia che gli avevano preso. Siccome le leggi di T*, a me sinceramente antipatiche, vietavano nella maniera più assoluta alcune attività di per sé innocenti come il dormire nel parco, ad Affelk non era rimasta altra scelta che trascinare alla stazione di polizia il vecchietto, che oltretutto nella confusione del momento non riusciva a ricordare il proprio nome, e affidarlo alle cure del commissario.

E qui erano cominciate le stranezze. Il commissario, che si chiamava Bergtanz, era un vecchio poliziotto, e conosceva un po’ tutti nel paese., Ma quel vecchietto, che poi tanto vecchietto non era, proprio non si ricordava di averlo mai visto. Non solo, ma era vestito in una maniera strana, che Bergtanz ricordava di aver visto solo nelle fotografie dell’album di famiglia. E, cosa più strana di tutte, aveva al polso un orologio meccanico, di quelli che non si vedevano più da almeno trent’anni.

Bergtanz era meticoloso, e sapeva che in un caso del genere la prima cosa da fare era stabilire in maniera assolutamente certa l’identità del personaggio. Ma non sapeva bene come fare: che il vecchietto fosse del paese lo provava la presenza dell’orologio, ma il numero di matricola di quest’ultimo non era di alcuna utilità, perché i vecchi registri erano andati persi nell’incendio dell’archivio di stato una decina di anni prima.

Eppure Bergtanz sentiva che sarebbe riuscito nel suo intento. Il vecchietto continuava a dire di non ricordare il proprio nome, e Bergtanz, per aiutarlo, gli mise davanti uno specchio. Ma l’uomo non si riconosceva. Bergtanz si era chinato su di lui, dietro le sue spalle, e a un tratto il vecchietto, che dopo lo sconcerto iniziale non sembrava più per nulla preoccupato della situazione in cui si trovava, esclamò allegramente: «Ma lo sai che mi assomigli?»

Bergtanz guardò. Non poteva esserne certo, ma gli sembrava che il vecchietto potesse avere ragione, e un lampo gli attraversò la mente. Sapete, una di quelle intuizioni fulminanti che ognuno di noi ha, ma solo una o due volte in tutta la vita.

«Sei sposato?» gli chiese.
«No, no, oddio, forse, non mi ricordo bene» rispose il vecchio.
«Hai figli?»
«Credo… sì, forse uno…»
«Allora sei sposato» concluse Bergtanz, conformista come tutti i suoi concittadini. «E tua moglie come si chiama?» incalzò.
Il vecchio ebbe un lampo nello sguardo.
«Flo… Flo… Florina. Si chiama Florina!» esclamò trionfante. Bergtanz era impallidito.
«E tuo figlio?»
«Mio figlio? Quale figlio? Ah, sì… dunque, vediamo… Hanni… no, quello è mio fratello… Grubertal! Ecco come si chiama! Grubertal!»

Bergtanz era bianco come un cencio. La sua intuizione si era rivelata giusta. Dovette aggrapparsi al tavolo per non cadere, Si sedette, ansimando, sulla sedia più vicina, guardò il vecchio fisso negli occhi per un minuto buono, e poi, lentamente e con fatica, gli disse:
«Tu sei Fotner, e sei il mio trisavolo.»

* * *

L’intuizione di Bergtanz si era rivelata giusta. Era proprio il suo trisnonno, scomparso in circostanze misteriose molti anni prima, quando il padre di Bergtanz non era ancora nato. Ma non c’era da dubitarne, tutti i nomi erano giusti, e del resto anche il vecchio, appena si fu rimesso dalla sorpresa, aveva cominciato a ricordare molte cose. Prima fra tutte il suo nome, che era proprio Fotner.

Ma, direte voi, come era possibile che fosse ancora vivo? Il fratello Hanni, di due anni più vecchio di lui, era morto novantenne sessant’anni prima, e come ho già detto Fotner sembrava averne, a occhio e croce, una settantina. Eppure sulla sua identità non c’era da dubitare, e il buon Bergtanz stava perdendo il sonno e la salute, e non veniva a capo di nulla. Però non demordeva, e continuava a sfogliare e a risfogliare il rapporto della guardia Affelk, cercando di capire cosa potesse essergli sfuggito. E finalmente capì, e la scoperta fu un vero e proprio pugno in pieno petto.

Ricorderete che Affelk, quando aveva trovato il vecchio, aveva dapprima pensato che fosse un cadavere, ma che poi, dopo averlo scosso a lungo, egli si era ripreso. Oltretutto, senza gravi conseguenze, a parte quell’amnesia temporanea.

Bergtanz prese le fotografie che gli aveva fatto fare il giorno del ritrovamento, per distribuirle nella speranza che qualcuno lo riconoscesse, e le guardò con attenzione. C’era qualcosa di strano, che non quadrava… ma cosa? Bergtanz prese una lente di ingrandimento e riguardò un’altra volta. Il colletto… i bottoni… la camicia… i polsini… l’orologio… l’orologio… l’OROLOGIO! L’orologio segnava un’ora sbagliata! Non c’è da stupirsi che Bergtanz non se ne fosse accorto subito: a T* tutti gli orologi marciavano perfettamente, e non c’era mai motivo di dubitare della loro esattezza. Quindi, un orologio sbagliato era semplicemente inconcepibile. Ecco perché non se ne era accorto prima.

La verità stava facendosi strada nella mente di Bergtanz. Evidentemente, Fotner si era addormentato nel parco dopo una sbronza. Siccome era rimasto lì a lungo, il suo orologio meccanico si era fermato. Ed era rimasto fermo fino a quando Affelk scuotendolo, non lo aveva rimesso in moto. Ma allora… Bergtanz aveva capito, finalmente. Nel paese di T*, il tempo passava solo per quelli che portavano un orologio in funzione!

* * *

Quando si fu rimesso dallo stordimento che la sua scoperta gli aveva provocato, Bergtanz cominciò a riflettere sui perché delle strane leggi del suo paese, leggi che come poliziotto era costretto, spesso suo malgrado, a far rispettare. Adesso capiva le ragioni della maniacale smania di precisione nella misura del tempo; capiva perché ad un neonato si dovesse subito applicare l’orologio, altrimenti non avrebbe mai potuto crescere; capiva anche perché un adulto non avrebbe mai potuto toglierselo, senza causare gravi squilibri nella vita sociale del paese. O almeno così gli sembrava. Quindi decise di tenere per sé la sua scoperta, costasse quel che costasse. Ma aveva fatto i conti senza l’oste, che, nel suo caso, era la sua abitudine di parlare nel sonno. Fu così che una notte, mentre agitatissimo si girava e rigirava nel letto, egli bofonchiò qualcosa a proposito dell’orologio e del tempo e della vita, e la cosa non sfuggì alle orecchie attente della moglie, che in quel periodo, vedendolo così inquieto, non gli toglieva gli occhi di dosso.

La moglie non ci mise molto a capire tutta la faccenda, ma siccome non ne vedeva bene le implicazioni, ne parlò con un’amica, la moglie del professor Ephesius, il celebre fisico. Il quale, messo al corrente dalla consorte, iniziò una serie di metodici esperimenti per chiarire i lati ancora oscuri del fenomeno. Fu così che, in capo a qualche settimana, tutto era diventato perfettamente comprensibile: ogni orologio emetteva in continuazione delle onde temporali, che si trasmettevano solo a brevissima distanza al soggetto che lo indossava, e che facevano per così dire marciare il suo metabolismo, insomma, gli facevano passare il tempo. Allontanare un orologio dal suo padrone voleva dire bloccarne il tempo: il senza-orologio sarebbe rimasto in uno stato di sospensione delle funzioni vitali, proprio com’era successo a Fotner quando gli si era fermato il suo.

I sensibili strumenti di Ephesius rilevarono che le radiazioni temporali emesse dagli orologi potevano essere facilmente arrestate da vari materiali: da qui derivava la ferrea legge che imponeva a tutti di non separarsi mai dall’orologio. Ad esempio, scoprì Ephesius, una sottile lamina di piombo inserita sotto il bracciale era sufficiente ad annullarne tutti gli effetti.
Il primo a fare le spese della sensazionale scoperta di Ephesius fu Ephesius stesso, la cui moglie, che aveva sbirciato fra le carte del marito e aveva letto la comunicazione che costui stava scrivendo per l’Accademia delle Scienze, ebbe la geniale idea di mettere la lamina di piombo al polso del marito mentre questi dormiva, per potersi recare in tutta tranquillità ad un convegno amoroso col proprio amante, convegno che si protrasse per una settimana intera. Peccato però che avesse fatto i conti senza l’oste, che in questo caso era costituito dal profondo acume di Ephesius, il quale, quando si accorse che per sette giorni, contrariamente alle proprie abitudini, non aveva scritto nulla sul suo diario, comprese tutto e in un accesso d’ira cacciò di casa la moglie.

Ormai però la notizia si era diffusa, e tutti volevano provare gli effetti della lamina di piombo, per le ragioni più varie. A nulla valsero i richiami dell’autorità, che ricordava la severissima legge; a nulla i moniti dei moralisti, dei religiosi e degli studiosi, che cercavano di far vedere le insidie e i pericoli della nuova abitudine. La lamina serviva alla vecchia zitella, che sperava così di prendere tempo per trovare marito, a stolti personaggi che credevano di poter invecchiare più lentamente, ad uomini d’affari senza scrupoli che riuscivano ad eliminare gli avversari, per non parlare di tutti i ladri e ladruncoli che la usavano per derubare le loro vittime dopo averle messe, per così dire, fuori del tempo.

Siccome poi chi aveva la lamina, ovviamente, non era in grado di togliersela da solo, furono inventate macchine automatiche, programmabili, che la toglievano quando fosse passato un certo tempo. Ma era una situazione terribile: le persone non avevano più età, perché non si poteva sapere quanto tempo avessero passato, appunto, “nel tempo”, e quanto “fuori”; le attività economiche andavano a rotoli per la stessa ragione; il mercato azionario era fermo, e la musica non esisteva più.

Già, la musica: ad un certo punto ci si accorse che la mancanza delle onde temporali si trasmetteva, con un certo ritardo, anche agli oggetti inanimati. Questo era ancora peggio, perché molti fenomeni fisici, lo sapete, sono periodici, e il tempo ne misura i parametri fondamentali. Prima sparì la musica, perché le corde dei violini e delle arpe non potevano più vibrare; poi fu la volta del laghetto di T*, la cui superficie priva di qualunque ondina non lasciava più passare l’ossigeno, e i cui pesci morirono tutti. I misteriosi fenomeni periodici che sono alla base della riproduzione erano fermi, e non nacquero più bambini. La luce era strana, perché le vibrazioni che ne determinano il colore erano alterate e irregolari. La stessa voce degli abitanti si percepiva ormai a fatica. Ma il disastro si compì il giorno in cui il trasmettitore del tempo, quello che alimentava la grande antenna nel centro di T*, smise di funzionare. T* era diventato un monolitico blocco di nulla, da cui, a fatica, uscì mio nonno, portandosi dietro come ricordo uno di quegli, ormai totalmente inutili, orologi radiocontrollati.