25 gennaio 2005

Racconti dal treno: Agostino il locomotore (una storia quasi vera)

Agostino era un vecchio locomotore elettrico, così vecchio che ormai lo usavano soltanto per servizi di poco conto, là nel parco binari della stazione centrale. Lui si sentiva ancora in gamba, ma il macchinista che lo aveva in carico una volta gli aveva detto: «Caro mio, tu hai tutto il cablaggio da rifare... Un giorno o l’altro, se non stai attento, ti verrà un bel cortocircuito fulminante e ciao». Ovviamente, di portarlo in officina per una revisione generale non se ne parlava neanche: quei cialtroni che gestivano la rete ferroviaria i soldi per la manutenzione se li mettevano quasi tutti in tasca, e figurarsi se ne avrebbero spesi per quel vecchio carcassone.
Così Agostino passava le sue giornate al deposito, proprio vicino al dopolavoro dei ferrovieri. Si divertiva ad ascoltare i loro discorsi: ogni tanto arrivava anche qualche vecchio macchinista in pensione, che lui aveva conosciuto e con cui aveva viaggiato quando faceva tutti i giorni, più volte al giorno, la Milano-Torino. Capitava che lo riconoscessero e che gli dicessero delle parole affettuose.
Nel bar del dopolavoro c’era anche una televisione, sempre accesa, e Agostino, che di natura era molto curioso, la guardava attraverso una finestra. Quando lo spostavano per qualche servizio e poi lo riportavano lì, lui faceva in modo di fermarsi sempre davanti a quella finestra. Era la sua grande risorsa, quella, e lui ascoltava e ricordava tutto. Soprattutto gli faceva piacere rivedere, ogni tanto, posti in cui era stato da giovane.
Una sera, mentre i ferrovieri giocavano a briscola, la sua attenzione fu attratta da un’intervista a quel trombone del presidente della sua regione, che Agostino, che aveva il cuore rosso da sempre come il fazzoletto di quasi tutti i suoi macchinisti, disprezzava con tutte le sue forze. E quella sera gli fece molto piacere notare che anche quelli della televisione lo prendevano in giro, perché si era messo a parlare di inquinamento e a magnificare i provvedimenti da lui adottati per far calare lo smog davanti a una colonna di fumo nero. Fumo che, più lui diceva di aver pulito l’aria, più diventava nero e denso.
Agostino si domandò cosa mai potesse essere quel fumo così nero ma orlato di bianco, di cui nessuno, e meno che mai il tronfio presidente, sembrava preoccuparsi. Ma certo, ecco cos’era! Una vecchia locomotiva a vapore, riesumata per qualche strana manifestazione. Ma... Agostino si strofinò i fanali e guardò meglio. Era lei o non era lei? Sì, era proprio lei, Giovanna, la sua amica di tanti anni prima! Una distinta e alquanto giunonica macchina nera, con cui lui aveva chiacchierato qualche volta, e di cui, nel suo ardore giovanile, si era anche un po’ innamorato. Ma fra loro non c’era mai stato nulla: la differenza di età era troppa, e lei non sembrava neanche tanto interessata. Solo una sera, al tramonto, in una stazioncina di periferia, si erano trovati entrambi fermi su due binari vicini, fianco a fianco, ad aspettare il segnale di via libera. Il tempo passava, del segnale non c’era traccia, e i due parlottavano fitto fitto, Si era creata una certa intimità, finché a un certo punto, raccogliendo tutto il suo coraggio, Agostino sporgendo un pantografo aveva fatto il gesto di farle una carezza sul duomo. Ma proprio in quel momento, mannaggia, il semaforo aveva abbassato la paletta, e quel crumiro del capostazione non aveva aspettato neanche un secondo a fischiare. Giovanna era partita subito lasciandosi dietro una scia di fumo nero, e da allora non si erano più rivisti. Agostino passò tutta la serata a rimuginare vecchi ricordi.
La mattina dopo, nel parco binari, tutto era tranquillo come al solito. Agostino sonnecchiava, quando fra i vagoni in sosta cominciò a passare una strana agitazione. I vagoni non stavano più fermi sulle ruote, si facevano cenni e bisbigliavano. Agostino tese l’orecchio.
«Hai sentito? Gioele si è rotto!» diceva un vagone letto a una carrozza a due piani. «Ma no, non è possibile!» rispondeva l’altra. «Ti dico che è vero! Gli ero attaccato proprio dietro!»
Gioele era un locomotore dell’ultima generazione: tarchiato e forte, lo avevano messo a tirare lunghi treni notturni su e giù per la linea di Chiasso. Tutti i giorni andava in Germania e tornava indietro. Era un po’ spaccone, ma non era antipatico. E le giovani carrozze lo adoravano. Il giorno prima però, mentre tornava dal suo solito viaggio, una di quelle diavolerie elettroniche che aveva nella pancia era saltata, e lui era riuscito in qualche modo a trascinarsi fino al parco binari, da cui poi non c’era stato più verso di smuoverlo.
Arrivò di corsa il macchinista. «Agostino, forza, muoviamoci!» gli disse, «dobbiamo portare subito Gioele all’officina!»
Agostino nicchiava. Primo perché aveva dormito poco pensando a Giovanna, e poi perché tutta quella sollecitudine gli dava fastidio, quando dei suoi acciacchi nessuno sembrava curarsi. Ma il macchinista era impaziente, e siccome lo conosceva bene e sapeva quanto fosse orgoglioso, cominciò a fargli notare come solo lui, il vecchio Agostino, fosse in grado di fare qualcosa per il giovane e prestante Gioele. Era il tasto giusto: Agostino lentamente alzò un pantografo, e come sempre rabbrividì alla scarica quando l’archetto toccò i fili. Era una delle poche cose che ancora adesso gli davano piacere: la trovava, diceva lui, “elettrizzante”. Si mosse, andò ad agganciare Gioele che si lamentava sommessamente e partì verso l’officina. Come pesava Gioele! Gli sembrava di avere dietro due treni, ma Agostino non si dava per vinto. Glie l’avrebbe fatta vedere lui a tutti, se non era ancora capace di fare i centoquaranta con quel po’ po’ di carico dietro! E tirava come un dannato. Il macchinista cercava di rallentarlo, ma lui non se ne dava per inteso. Piano piano la velocità aumentava: quaranta, cinquanta, sessanta chilometri all’ora... E Agostino tirava sempre più forte, anche se sentiva le resistenze scoppiargli per lo sforzo. Settanta, ottanta, novanta... Adesso il carico gli sembrava un po’ più leggero. Agostino tirò uno sbuffo di aria compressa per il sollievo, e proprio in quel momento si accorse che stava attraversando la stazioncina di L..., proprio quella dove, tanti anni prima, aveva quasi accarezzato Giovanna. Fu un attimo: l’emozione si sommò allo sforzo, sovraccaricando tutti i circuiti, e qualcosa dentro ad Agostino si arroventò e prese fuoco, davanti a tutti i passeggeri che aspettavano il treno delle undici e ventidue e che guardavano stupiti quella coppia: il locomotore giovane evidentemente rotto, e quello vecchio avvolto in una nuvola di fumo acre e puzzolentissimo. Il macchinista aveva azionato il freno appena fuori dalla stazione, era saltato giù e... Piangeva? sì, piangeva. Agostino aveva capito che ormai non c’era più nulla da fare: il fumo gli aveva oscurato i parabrezza e lui non vedeva quasi nulla; tutti i suoi circuiti erano saltati, si sentiva morire... Alla fine scoppiò il tubo dell’aria compressa, il pantografo cadde e Agostino rimase immobile. Dovettero mandare una locomotiva di manovra a portarli via tutti e due.
«Non c’è niente da fare» sentenziò il capo officina dopo una rapida occhiata al disastro di Agostino. «Se me lo portavate prima, si poteva revisionare, ma adesso... Non ne vale proprio la pena.»
«Capo, guarda un po’ qui» gli disse un operaio che teneva in mano la pompa dell’olio di raffreddamento, la cui rottura era evidentemente la causa del surriscaldamento e del guasto di Agostino. «Se fosse un uomo, potresti dire che gli è scoppiato il cuore», rispose i capo. E presa la pompa, la buttò in un angolo, su un mucchio di rottami.